“Non smetteremo di esplorare. E alla fine di tutto il nostro andare ritorneremo al punto di partenza per conoscerlo per la prima volta”
Di Luana Ricci
Il Caucaso scorre lento dal finestrino sotto a una pioggia battente. Attraversiamo piccoli villaggi di periferia, apparentemente addormentati nel grigio di una pigra domenica, in questa lunga marcia verso lo Svaneti. Con questa terra ci siamo salutati ormai molti anni fa. Da allora la mia quotidianità è cambiata, il mondo è cambiato, ma quaggiù nessuno sembra essersene accorto. Un piccolo universo che sembra fisso e immutabile, come le nuvole grigie che lo avvolgono, protetto da un mondo che corre troppo veloce e che non ha nessuna intenzione di inseguire. Un universo imperfetto, antiestetico ai canoni dell’Occidente, che ammalia e rapisce. Che ti accoglie ogni volta, antiquato e polveroso, ma a cuore aperto. Che puoi amare nel profondo se non hai paura di sporcarti di fango. In un mondo che mira alla perfezione, il Caucaso resiste. Siamo in viaggio da diverse ore su una marshrutka sgangherata verso le montagne, direzione Mestia, centro principale della regione dello Svaneti, posto alle pendici del Monte Ushba, una delle più belle e maestose vette del Caucaso, che domina la valle con i suoi 4710metri. Domani ci metteremo in cammino. La meta finale è Ushguli, l’insediamento umano permanente più alto d’Europa. Protetto da una cornice di giganti invalicabili è l’estremo limite dell’Europa. L’ultima inespugnabile frontiera prima della Russia, da cui è separata da alti passi coperti da ghiacci perenni. Nessuna strada asfaltata collega il villaggio al resto del mondo e noi lo raggiungeremo a piedi in quattro giorni di cammino. Ci aspettano poco più di 60km e circa 3500m di dislivello. La pioggia incessante e il freddo spaventano un po’, ma è finalmente ora di andare e l’emozione è tanta. Mestia, ultimo avamposto di modernità, è la nostra porta segreta su una realtà sconosciuta da scoprire a passo lento.
L’ indomani di buon mattino il sole splende alto e illumina d’oro le vette aguzze che bordano la valle, che con i loro 4000 metri ci danno il benvenuto nel mondo dei giganti di ghiaccio. La marcia verso Zabeshi prosegue lenta. La meraviglia è tanta e la sensazione di aver superato quella soglia invisibile, magia insondabile del viaggio, oltre la quale nulla sarà più come prima, inizia a prendere forma. Il Caucaso incanta, si trasforma e sorprende ad ogni passo. Quassù la natura è selvaggia e la vita semplice, lontana da tutto ciò a cui siamo abituati. Il sole lascia il posto ad una pioggia battente; attraversiamo villaggi surreali, fermi nel tempo e avvolti nel fango. Maiali e mucche girano liberi per le strade, i pochi abitanti ci accolgono con un saluto. L’ arrivo a Zabeshi sotto al diluvio quasi spaventa, ma poche ore dopo il cielo si apre e la valle si illumina dei giochi di luce di un tramonto di rame, che si fa spazio tra le nuvole, alla fine di un giorno di pioggia; mirabile preludio della magia dell’indomani. Ci sono giornate che valgono una vita intera. E la seconda tappa da Zabeshi a Adishi sarà una di quelle.
Ci sono luoghi da cui non si torna più indietro per quel “viaggio che non soltanto allarga la mente, ma le dà forma”. E il Caucaso è così. Sa rapire ad ogni passo, colma gli occhi di meraviglia e l’animo di vita vera, nella sua forma più pura. È un costante ritorno all’essenziale, lontano dalle sovrastrutture imposte della quotidianità. Là dove sporcarsi di fango, rallentare e condividere sono ancora beni preziosi. E nella condivisione di una birra, con un caro amico, nel tramonto di un villaggio di fango, si racchiude l’essenza di una giornata speciale. La terza tappa da Adishi a Iprali, con la meraviglia negli occhi, è un invito al viaggio. È difficile da spiegare cos’è per me viaggiare. È qualcosa di innato ed istintivo. Qualcosa che non potrebbe essere altrimenti. La curiosità sempiterna che prevale sulla paura. La voglia di scoprire tutto ciò che è il più lontano possibile dal mio modo di vivere, agire e pensare. E vedere che è solo uno tra tanti. Vedere che sei solo uno tra tanti. La voglia di osservare da vicino e toccare con mano quelli che son stati sogni e immagini nella mia testa. Quelle montagne disegnate sugli Atlanti, quegli Oceani minuziosamente descritti nei libri. Perché temere il Mondo là fuori? Perché non lasciarsi andare alla vita? “Per la stessa ragione del viaggio, viaggiare”, cantava “Qualcuno”.
E a “forza di essere vento” seguiamo le tracce di antichi pionieri, ma con lo sguardo rivolto al futuro. La tappa da Adishi a Iprari è una delle più dure e spettacolari dell’intero cammino e ci conduce alla base del ghiacciaio Adishi. Lo spettacolo è immenso, ma la paura del mondo che sarà, davanti a questi giganti di ghiaccio che da sempre regolano gli equilibri del nostro pianeta, oggi irreversibilmente intaccati dall’arroganza dell’uomo, prevale netta; anche qui, sperduti nel Caucaso, in estasi al cospetto di quel gigante buono che ha in sé le sorti del mondo. La sera prima dell’ultima tappa di un cammino, si sa, ti sconvolge con sensazioni contrastanti e l’emozione dell’arrivo, si scontra col timore velato del ritorno alla realtà. Ma le montagne, soprattutto se illuminate del rosso fuoco di un tramonto d’estate, sanno ispirare e suggerire il finale migliore. E allora ecco che decidiamo di regalarci il più bello degli epiloghi. L’ultima tappa inizia col buio e solo la luna guida il nostro cammino. Ci aspetta una lunga marcia fino ai 2834 metri del Latpari Pass; da lassù si gode una delle viste più belle dell’intero Caucaso, dicono. Da lassù si vede la Russia e l’Elbrus potrebbe far capolino in lontananza. Il meteo instabile e la neve che forse non ci lascerà passare ci caricano di un’energia incredibile. Una salita lunga e silenziosa, fuori dai sentieri battuti. Nessuno sul sentiero oltre noi. Ci sei tu e la montagna; pochi attimi nella vita concedono una riconnessione così intensa e le sensazioni di quei momenti resteranno scolpite nella memoria in eterno, come quell’ultimo risveglio tra i giganti dell’ indomani. Sopraffatti dalle emozioni del giorno, l’arrivo a Ushguli passa quasi inosservato. È l’ultima frontiera, ma non per noi; ed è un arrivo che sa di nuovo inizio. Il Monte Shkhara, con i suoi 5193mla vetta più alta della Georgia, avvolge il villaggio in un gelido abbraccio e sembra aver congelato anche lo scorrere del tempo. Le case in pietra e le antiche torri dello Svaneti spiccano tra l’azzurro del cielo e le sfumature argentee dei ghiacciai sullo sfondo, regalandoci un’ esperienza quasi onirica, fuori dal tempo e dallo spazio. Di buon mattino è poi il momento di tornare nel mondo moderno, ma il Caucaso sa stupire fino alla fine, col suo caos polveroso e imperfetto, ricordandoci dove siamo. In un luogo dove la prima automobile è arrivata solo alla fine degli anni ’60,dove altrove si viveva di rivoluzioni e boom economici; un luogo dove ancora d’inverno si vive isolati sotto metri e metri di neve; dove un temporale provoca un blackout e si vive una vita semplice tra strade di fango e cieli stellati. È così che finisce la nostra piccola grande avventura. Le piogge intense della notte hanno provocato un’enorme frana e bloccato la strada sterrata che porta a Ushguli; noi supereremo la frana a piedi e al di là troveremo un passaggio verso la città. Percorrendo i 45 km che ci separano da Mestia torneremo alla nostra realtà, fatta di lussi e cemento, con la speranza e, forse un po’ la consapevolezza, che quaggiù, tra le montagne c’è un piccolo universo polveroso e imperfetto che resiste dagli assalti del tempo.
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