On the road nel Pamir ai piedi dell’Himalaya

da | 11 Apr 20 | Pensieri in cammino | 2 commenti

di Luana Ricci

“Eravamo tutti molto stanchi dell’immenso, monotono Pamir, probabilmente la terra ideale per un pessimista, se mai ne avesse avuto bisogno. In effetti, non riesco a figurarmi un’immagine più calzante dell’estrema malinconia, di un pessimista che legga Schopenhauer nel Pamir. Questa è una terra senza speranza”.

Così il capitano russo Serebrennikov scriveva nei suoi diari dopo aver trascorso un lungo inverno a Pamirskij Post, il primo avamposto russo nel Pamir, oggi Murghab.

Non sembrerebbe di certo il posto ideale per andarci in vacanza.  Eppure l’altopiano del Pamir, in Tajikistan, col suo paesaggio quasi ultraterreno, fatto di rocce brulle e dalle mille sfumature, verdi, azzurrognole, violacee e punteggiato da laghi con l’acqua più azzurra che si possa immaginare offre molto di più di una mera malinconia al viaggiatore che decide di avventurarvisi.
La “terra alle pendici del Sole”, come definita da una delle tante teorie sull’origine, che rimane ancora ignota, del nome Pamir, è costituita da un immenso altopiano che si estende nel cuore dell’Asia Centrale ad un’altitudine media di 4000 metri sul livello del mare, incastonato tra alcune delle catene montuose più imponenti del pianeta, l’Himalaya, il Karakorum, il Kunlun, il Tien Shan e bordato da vette che superano i 7000 metri, come i mitici Muztagata, sul versante Cinese o il famoso Picco Ibn Sina, o Picco Lenin, che si innalza lungo il confine Kyrgyzo.

 La nostra avventura inizia proprio in Kyrgyzistan, a Bishkek, la capitale, in una tiepida giornata di fine settembre di tre anni fa. Siamo riusciti ad affittare un Uaz Buhanka, l’indistruttibile versione russa del più rinomato “hippy Van” della Volkswagen, che per un po’ sarà la nostra casa e ci condurrà prima al confine Tajiko e poi in un folle viaggio andata e ritorno attraverso i monti del Pamir.
Due giorni di viaggio ci separano dall’altopiano. Percorriamo la mitica M41 che attraversa da Nord a Sud il Kyrgyzstan, uno stato grande poco più della metà dell’Italia e occupato per circa il 90% da montagne. Le ore scorrono veloci. Attraversiamo piccoli villaggi e campi sterminati, circondati da cime innevate e punteggiati da rifugi in lamiera e yurte, ormai rare per l’arrivo imminente dell’inverno. Sulle montagne “poggiano” soffici nubi, come appese in una scenografia teatrale. Superiamo passi montani coperti di neve e attraversiamo vallate assolate dai mille colori. Quei colori che solo l’Asia Centrale sa offrire. 

L’arrivo nella Valle degli Alai segna l’inizio di un altro mondo. Al di là di quelle impervie montagne c’è il confine Tajiko e da li si arriva al cuore del Pamir. L’ingresso nell’altopiano, illuminato dalla luce rossa del tramonto, è una sensazione che non si dimentica facilmente. Così come le prime luci dell’alba del giorno dopo. Corpo e mente si liberano fin da subito e si lasciano andare ai ritmi della natura: c’è la luce del giorno, c’è il tramonto, poi il buio e l’immensità della notte. Gli orologi segnano orari privi di significato; da qualche parte sull’altopiano le lancette andrebbero spostate in avanti, ma non sapremo mai dove, né perché. Non ce n’è bisogno. Sei solo tu sotto un mare di stelle.
Gli incontri sul Pamir sono rari. Ci sono solo pochi e polverosi villaggi fatti di rade case bianche dai tetti piatti, distanti l’uno dall’altro diverse ore di viaggio. Ci si chiede costantemente come si possa vivere da queste parti; è uno dei luoghi col clima più inclemente del pianeta. Il vento freddo ti taglia la pelle ogni volta che scendi dal van. Tra poco arriverà il lungo inverno, freddo e nevoso. La terra è magra e brulla e coltivare qualcosa è reso impossibile dall’altitudine, pochi animali riescono a sopravvivere. Si allevano Yak, da cui si ricavano carne, yogurt, burro e latte. E la vita finisce qui.

Guardarsi intorno è l’unica occupazione per chi attraversa l’altopiano.
Nella sua immensa e assoluta immobilità il paesaggio del Pamir, ha tanto da raccontare.
La sua storia geologica lunga e travagliata che ha portato alla collisione tra enormi masse continentali e ha “spostato interi oceani” fino al tetto del mondo.
La storia di Marco Polo che fu tra i primi ad attraversare a cavallo, diretto in Cina, queste lande desolate dove “si va bene dodici giornate senza abitazione, e non si truova che mangiare, se altri non lo vi porta. Niuno uccello non vi vola, per l’alto luogo e freddo;”.
La storia del “Grande gioco” dell’Asia Centrale, una guerra strategica, lunga e silenziosa, combattuta durante tutto il XIX secolo, tra la sterminata Russia e la Gran Bretagna, di stanza in India, per il controllo di queste aree remote, invalicabile cuscinetto tra i territori delle due superpotenze.

Ma il Pamir ha molto da dire anche sulla storia di ognuno di noi.
Per dirlo con le parole del maestro Kapuściński:

“Nel paesaggio c’è qualcosa che disarma, opprime, paralizza. Anzitutto la sua immensità, la sua sconfinatezza, la sua oceanica dismisura. Qui la terra non ha fine, il mondo non ha fine. L’uomo non è fatto per una simile dismisura.”

E allora forse è per questo che esistono le frontiere. Qui espresse come una lunghissima rete metallica bordata di filo spinato che segna il confine con la Cina. Interrompono la magnificenza del paesaggio e ti riportano nel mondo degli uomini. Uomini che passano la vita a costruire frontiere, a combattere per espanderle o difendere. Uomini che costantemente fissano limiti e confini nel loro pensare e nel loro sentire, ma sognano eterni paradisi sconfinati.
E infine, lassù, dispersa tra i monti del Pamir, c’è anche un po’ della nostra storia, che abbiamo scelto di lasciarci alle spalle l’altopiano per tornare per poche ore nella civiltà e poi di attraversarlo poi nuovamente. Perché un’andata non sarà mai uguale ad un ritorno, semplicemente perché non sei uguale tu. Perché crediamo nell’importanza di cambiare prospettiva; di cambiare punto di vista per arrivare il più possibile al nocciolo delle cose. 

E allora anche il cielo è cambiato con noi. Pian piano è svanito l’azzurro intenso che ci aveva accompagnato fino a quel momento e l’aria si è colorato all’improvviso di grigio piombo, finché tutto non è stato ricoperto da un fitto manto di neve.
Tutto questo però non ci bastava. E un giorno abbiamo deciso finalmente di attraversarla quell’opprimente frontiera di filo spinato che divide l’altopiano a metà, ma questa è un’altra storia.

 

 

 

 

 

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